Le parole ponte. L’uso del linguaggio nella talking-cure
Antinori Maria Grazia
Le parole riempiono, a volte saturano, la nostra vita. Ma qualcosa di speciale e di diverso, distingue le parole della ”talking cure” – cura delle parole-, da quelle che pronunciamo abitualmente.
La psicoanalisi presuppone che due persone, in una stanza tranquilla ed accogliente, si parlino. Il paziente, forse, cerca di ritrovare un filo smarrito, il senso di sè, la possibilità di vivere il suo tempo e l’analista ha il ruolo di ascoltare e di restituire anche quello che ancora non è stato detto o pensato.
Come scrive Bion, nei seminari brasiliani: “Nella stanza d’analisi ci dovrebbero essere due persone piuttosto spaventate: il paziente e l’analista. Se non lo fossero ci si potrebbe chiedere perchè si stiano tanto preoccupando di scoprire ciò che ciascuno già conosce”.
Le parole emotive troppo rumorose o troppo sussurrate
Le parole che si pronunciano in un setting psicoanalitico, acquistano un senso ed un valore speciale che spesso prevarica o corrisponde solo parzialmente, al significato oggettivo della comunicazione verbale. Un compito centrale dell’analista è proprio quello di riconoscere e differenziare come le parole siano utilizzate e pensate.
Ancora dopo un anno di terapia, Elena quarantasei anni, sembra molto spaventata ed in ansia ogni volta che si siede sul divano. Le è difficile trovare una posizione comoda, si agita, resta rigida e in silenzio, gli occhi sgranati e i movimenti pensati, trattenuti.
Si guarda intorno, passa in rassegna la stanza, gli oggetti e la stessa terapeuta alla ricerca d’indizi di cambiamento, anche i più banali.
Ogni segno è valutato e caricato di un significato che la paziente riferisce alla sua persona, un movimento dell’altro tende ad interpretarlo come un’intenzione aggressiva e pericolosa.
Elena sembra aver paura di essere toccata dalle parole, si sente sola come la bambina che era e che viveva in una casa lontana dal centro abitato.
A volte i suoi genitori contadini, l’accompagnavano in paese ed Elena si sentiva persa, disorientata, muta.
Oggi si è trasferita in una grande città, è laureata, sposata, lavora, ma è rimasta la stessa bambina chiusa in un mutismo pieno di ombre e di sensazioni afone.
Silenzio, pianto, frasi sconnesse ed incomplete, spesso Elena ha bisogno di diversi minuti per riuscire a formulare un pensiero che resta comunque sospeso; come se desse per scontato che l’altro conosca tutto quello che la riguarda.
E’ senza pelle, senza confini. Piange per ogni emozione o sentimento che sembra evacuare attraverso le lacrime.”Quando penso, piango … parlo con le lacrime” dice di sé la paziente.
A volte, la distanza che impone tra lei e la terapeuta, diventa così satura e pesante da indurre un forte senso di sonno e la voglia di chiudere gli occhi, probabilmente corrispondente al desiderio della paziente di ritirarsi e di annullare ogni contatto.
Sembra che per lei, le parole siano pesanti e potenti e che possano colpirla come proiettili, quest’atteggiamento richiede una risposta attenta e calibrata. La terapeuta cerca di assicurarle un silenzio caldo come una coperta, altrimenti Elena si sente persa come quando era bambina e attraversava la campagna alla ricerca di un drappo rosso che le segnalasse il punto della vigna dove lavoravano i suoi genitori.
Per un altro paziente, Paolo trentatré anni, ingegnere, le parole sembrano invece prive di senso, gli scivolano addosso senza lasciare traccia, sembrano transitare su di lui come una lunga fila di formiche indistinguibili tra loro.
Non ascolta, non ricorda, non mentalizza, le sue stesse esperienze riferite e commentate, sono apparentemente dimenticate. Sembra uno di quei pazienti descritti da Bion, che appaiono completamente incapaci di ascoltarsi.
Paolo urla incessantemente il suo dolore per non aver ancora incontrato la donna ideale e soprattutto il suo strazio per l’assoluta convinzione che MAI la incontrerà. Niente lo placa, ogni esperienza, per quanto positiva, è comunque fonte di frustrazione, poiché fallisce nel suo unico obiettivo. Per un certo periodo, gli è stato penoso anche camminare per le strade, quando incrociava lo sguardo con “le belle ragazze” provava una grande rabbia: “tanto non mi vorranno mai!”.
Il mondo interiore di Paolo resta sempre vuoto, un deserto senza speranza,non riesce ad immaginare altri scenari se non il suo supplizio, un’unica scena che si ripete incessantemente. E’ così chiuso in sé stesso da non accorgersi degli altri, uomini e donne, focalizza un unico aspetto: “non posso avere una donna carina, perché dovrebbe scegliere me!”.
Non registra, non mentalizza, non ricorda i suoi evidenti ed a volte, eclatanti successi sociali, lavorativi e con le stesse donne.
All’inizio dell’analisi, la sua sessualità era limitata all’autoerotismo non riusciva ad avere rapporti sessuali. Oggi, senza troppa paura, ha scoperto la sessualità, anche un certo grado di tenerezza e soprattutto riesce a distinguere nell’informe categoria “donne”, persone con un nome e una personalità. Nonostante questo, è grande la sua sofferenza rancorosa per non avere ancora incontrato la donna ideale, ossia una ragazza abbastanza attraente, vivace ed intelligente. Attualmente frequenta una persona che descrive come intellettualmente straordinaria ma priva di ogni attrattiva sessuale.
La terapeuta cerca di ascoltare, di immaginare le situazione, di aiutare il paziente ad osservare gli avvenimenti e se stesso,di andare oltre al filtro del “mai” e soprattutto mantenere la speranza per altri possibili scenari che il paziente non riesce ad immaginare per le sue stereotipate e ripetitive fantasie catastrofiche che risuonano in lui più forti delle stesse esperienze.
Il narrare insieme i cambiamenti recenti, mettere a confronto il Paolo impossibilitato a guardare gli altri negli occhi con quello di oggi, contribuisce a creare una prospettiva nuova, un certo senso del tempo, un ritmo negli avvenimenti. Il ”mai” granitico resiste, anche se ridotto, decisamente smussato per quanto riguarda le aree lavorativa e sociale.
Il “mai”di Paolo si riferisce al passato, ad una catastrofe che egli ha già vissuto, ossia una madre che non è riuscita a sostenerlo, troppo presa dalla necessità di curare un marito depresso ed in difficoltà.
Le parole di Paolo sono pesanti come sassi lanciati con forza contro la terapeuta-madre colpevole di averlo reso impotente. Il primo compito è, come direbbe Winnicott, di sopravvivere agli attacchi verbali del paziente; il secondo è quello di raccogliere le parole-sasso e restituirle per costruire e sostenere l’identità del paziente: riportargli, senza ferirlo, la sua stessa rabbia.
Il problema di Paolo non è certamente la risposta negativa delle belle ragazze alle sua avance, ma la necessità di smorzare il suo odio e la sua rabbia rancorosa verso tutte le donne, soprattutto quelle desiderabili e corteggiate che egli immagina proibite, come la madre dell’infanzia che preferiva il padre al piccolo Paolo, solo ed abbandonato a se stesso. Così egli oggi prova una grande invidia e gelosia per gli altri uomini che sembrano appartenere ad un’unica categoria di fortunati, con cui è impossibile confrontarsi o competere.
I contenuti delle sedute sono ripetitivi, ma nella vita Paolo si concede di esplorare nuovi territori, scopre la differenza tra il sesso pornografico e la sessualità vissuta con una donna reale. In rare ma intense sedute cambia tono, la voce si abbassa, il ritmo dell’eloquio rallenta, si lascia toccare dalle parole dell’altro, questo accade quando scopre la tenerezza con una ragazza.
Naturalmente, presto riprende il suo tormentone: “Nessuna ragazza carina mi vorrà mai!”. E’ come se facesse vivere all’altro la sua stessa frustrazione e senso d’impotenza, non riesce a ricordare o a pensare, quando ha vissuto queste sensazioni da bambino o da adolescente e tanto meno ad esprimerle con le parole ma le agisce, le mette in scena, impersonando il ruolo del carnefice e affidando all’altro, il compito di vivere la sua stessa impotenza, frustrazione, solitudine e isolamento affettivo.
E’ evidente la dissociazione tra il comportamento e le parole: con le parole il paziente nega i sentimenti, le emozioni ed il dolore del passato; con il comportamento agisce oggi, nel qui ed ora del setting, proprio quei contenuti negati con le parole.
Ha ragione Paolo ad affermare l’associazione tra “mai/amore”, ma è un’associazione che egli ha già vissuto nel passato e che trasferisce al presente ed al futuro, determinando un’aspettativa negativa che influenza il suo comportamento attuale, portandolo a ripetere in maniera coatta ed inconsapevole un copione del passato che è stato profondamente traumatico, anche se si è trattato di un trauma cumulativo piuttosto che acuto.
A Paolo manca la capacità di sognare, in senso bioniano, la propria esperienza emotiva, è drammaticamente ancorato ad una super-realtà, piatta, senza ombre immutabile ed eterna. Lo stesso linguaggio è appiattito al concreto e svuotato di capacità evocative.
Ogden, direbbe: “una persona incapace di imparare dall’esperienza (e di farne uso) è imprigionata in una condizione infernale di un mondo infinito ed immutevole “
Ogni paziente utilizza le parole in modo peculiare, più è profondo ed antico il disagio o la patologia, più le parole diventano altro, oggetti, cose, sostituti e non mezzi della relazione.
Le parole-oggetto sono concrete, a volte molto pericolose a volte vuote e prive di significato in quanto isolate dalla componente affettiva.
Il valore delle parole all’interno del transfert
Più le parole si discostano dalla loro funzione comunicativa, maggiore è la necessità che l’analista sia centrato sul transfert-controtrasfert che diventano quasi gli esclusivi strumenti di relazione.
Le parole si possono trasformare in un muro di rumore, diventare assordanti e quindi insignificanti e fastidiose e, paradossalmente, intralciare la comunicazione.
Del resto, la terapia psicoanalitica è una talking cure, non si può fare a meno del linguaggio verbale che è lo stesso veicolo della relazione analitica. Quando
al paziente mancano “le parole per dirlo”, il vuoto tende ad essere riempito dagli agiti o dall’impiego di parole prive di senso, semplice scarica motoria.
Come scrive Racalbuto in “Tra il fare ed il dire”, è necessario costruire un ponte tra le parole e le cose, tra il verbale e gli affetti. Le parole scollegate dagli affetti, non hanno valore, ma le cose senza rappresentazioni non possono essere pensate ed elaborate. “Con le parole e le loro regole, il principio di piacere non può più spadroneggiare, ma deve lasciare il posto al principio di realtà che esige, normalmente, che la realtà parlata sia una realtà condivisa”.
Un esempio d’impossibilità di comunicazione verbale, è data da certi bambini autistici che sostituiscono la parola con stereotipie corporee, l’esempio opposto è invece quello di coloro che comunicano solo attraverso il linguaggio verbale , si tratta di un linguaggio “disabitato dal corpo pulsionale”, privo dell’ affettività, anche se il corpo con somatizzazioni improvvise, può esprimere gli affetti che le parole negano. Le prime esperienze d’oggetto del bambino, sono evidentemente di tipo corporeo, lo stesso Io del bambino è, come afferma Freud, un Io corporeo.
Partendo dall’osservazione di come le emozioni ed i sentimenti siano radicati nel corpo, diventa cruciale la questione del come le parole riescano a raggiungere e modificare i sentimenti e le emozioni, soprattutto quelle non rappresentate o pensate.
Poter accedere alla parola-affetto, ossia al verbale associato all’affetto, presuppone che colui che parla si senta definito, con una pelle certa, un confine che lo delimiti e che allo stesso tempo gli consenta di relazionarsi all’altro senza pericolo di perdere la sua identità.
Per fondare la propria identità in modo saldo, è necessario elaborare quello che Racamier definisce “lutto originario”, ossia il processo che porta il bambino a separarsi dall’amalgama narcisistica con la madre.
Il bambino alla nascita è immaturo e necessita delle cure materne per la sua stessa sopravvivenza. Tra madre e neonato, si crea un’intensa relazione di reciproca seduzione che protegge il bambino dall’eccesso di stimolazioni interne ed esterne, permettendo un accordo quasi perfetto che mira a proteggere la serenità narcisistica (Holding, preoccupazione materna primaria di Winnicott).
All’inizio della vita è essenziale per un sano sviluppo psichico, la chiusura narcisistica che preserva l’unisono simbiotico, l’illusione di un unico corpo che prosegue fino a quando le forze della crescita, spingeranno il bambino verso l’esterno.
Il lutto originario è un processo maturativo universale, originario in quanto comincia all’inizio della vita e prosegue fino al termine dei nostri giorni,è essenziale in quanto permette di riconoscere la differenza tra le persone e le generazioni e fonda la stessa psiche.
“Per lutto originario intendo il processo psichico fondamentale per il quale l’Io fin dalla prima infanzia, prima ancora di emergere e fino alla morte, rinuncia al possesso totale dell’oggetto, compie il lutto di un’unione narcisistica assoluta e di una costanza dell’essere indefinita, è tramite questo lutto che fonda le sue origini, opera la scoperta dell’oggetto e del Sé e inventa l’interiorità. L’Io stabilisce così le proprie origini riconoscendo di non esserne il padrone assoluto”.
Il lutto originario è quindi una crisi, la prima difficile prova per l’Io che deve affrontare un paradosso: per scoprire l’oggetto, è necessario prima perderlo. Una volta avvenuto il lutto originario, questo conferisce all’Io, una certa tolleranza ai lutti successivi e soprattutto permette di avere fiducia nell’oggetto ed in sé stessi, lasciando come un’eredità “l’idea dell’Io”, ossia la percezione essere il proprio corpo e di stare nel mondo come un luogo familiare.
Racalbuto riconosce come i pazienti narcisistici, psicotici, borderline e perversi e anche quelli nevrotici in particolari momenti della loro analisi, siano come impermeabili al contenuto dell’interpretazione e quindi al processo secondario, la loro fragilità narcisistica li rende inaccessibili.
E’ quindi la fragilità narcisistica che svuota le parole di senso e le rende più simili ad oggetti.
Se il lutto originario è imperfetto, la persona resta in quella fase che Racamier chiama “Antedipo”
La parola per essere espressiva, deve attraversare uno spazio vuoto tra “il me ed il non-me”, altrimenti resta propaggine corporea, oggetto, cosa, estensione del corpo, si svuota del suo stesso aspetto simbolico o, al contrario, viene neutralizzata scindendola dall’affetto, perdendo ogni rapporto con la realtà ed il corpo.
Potremmo quindi parlare di una parola troppo carica di corporeo, ” una parola- somatica” e di una parola svuotata di affetto, “una parola-rumore”, ogni paziente può oscillare da una posizione all’altra a seconda delle difese attivate: se prevale la proiezione prevarrà la “parola somatica”, se l’isolamento affettivo la “parola-rumore”.
Ritornando a Racalbuto: “Senza la costituzione di un “ponte” fra il corpo e la parola, di un ponte che tocchi e separi cioè le due sponde, si può correre il rischio della permanenza esclusiva in uno dei due “territori”, che restano così estranei l’uno all’altro”.
L’analista, per costruire il ponte tra il corporeo ed il simbolo della parola, deve trovare espressioni verbali che sono “equivalenti simbolici del tatto” (Anzieu), avvicinare il corpo pensato con il corpo vissuto, attraverso il proprio lavoro psichico, rimandando , se necessario, l’interpretazione per fare da cassa di risonanza a quell’affetto che il paziente non riconosce e che attraverso l’identificazione proiettiva, fa sentire e vivere all’analista.
L’analista per poter raccogliere il non detto, deve tollerare egli per primo il senso di vuoto, dare tempo all’affetto di farsi esperienza riconoscibile e, solo in un secondo tempo, verbalizzare al paziente scegliendo le parole che egli possa intendere ed accettare.
Il Bion dei seminari sottolinea in molti passaggi, la necessità che l’analista tolleri abbastanza a lungo le difficoltà del paziente, ma soprattutto la propria ignoranza, rinunciando a trarre subito conclusioni che rischiano di saturare il campo della conoscenza.
“Se l’analista è disposto ad ascoltare, a tenere aperti gli occhi, le orecchie, l’intuizione e i sensi, questo ha un effetto sul paziente, che sembra crescere. La seduta fornisce alla mente del paziente ciò che, se si trattasse di un’esperienza fisica, si potrebbe definire –buon cibo-. Bisognerebbe incontrare il paziente come se fosse la prima volta, rinunciando alla memoria ed al desiderio, quando non si conoscono le risposte, bisogna scoprire parole nuove”.
Freud ha descritto l’atteggiamento ideale dell’analista come “attenzione fluttuante”
Bion, sottolinea come la sola attenzione al contenuto, può rendere opaco l’intero discorso. Egli ha introdotto il concetto di rèverie, secondo il quale l’analista coglie i contenuti emotivi evacuati trasformandoli in nuove forme più tollerabili per il paziente.
Citando Bion: “L’esperienza analitica nonostante tutte le apparenze di conforto, è un’esperienza emotiva tempestosa per le due persone. Ci si aspetta che l’analista rimanga capace di un linguaggio articolato e capace di tradurre ciò di cui è consapevole in una comunicazione comprensibile. Questo vuol dire avere un vocabolario che il paziente è in grado di capire se gli si dà la possibilità di ascoltare quello che l’analista ha da dire”
Come pone l’accento Martini, è centrale nel trattamento psicoanalitico il movimento di “va e viene” che conduce il paziente dal suo essere sociale, alla sua dimensione inconscia e fantasmatica e quindi alla componente somatico-sensoriale non rappresentabile.
“Un modello dialettico della psicoanalisi implica perciò che se ne riconosca lo specifico della possibilità di costruire connessioni tra il rappresentabile e l’irrappresentabile, tra il conscio e l’inconscio, tra l’intrapsichico e l’interpersonale, tra l’interazione e il transfert
Ultime sedute prima delle vacanze di Natale .
Elena sembra triste e preoccupata per la prossima separazione.
La terapeuta prova a offrirle un po’ di conforto parlandole del cibo delle feste ma la paziente sente il tema come intrusivo, si arrabbia e si agita. C’è il tempo di recuperare, la terapeuta interpreta la risposta della paziente e riconosce l’imprudenza del suo ardire.
Elena si rilassa abbastanza da riconoscere la sua profonda paura per l’offerta di un contatto emotivo che sente eccessivo e pericoloso.
Il silenzio è ancora la sua migliore coperta calda.
Antinori Maria Grazia
P.zza Armenia 9
Roma
Cell 334 338 58 35
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